Tempo di lettura: 6' Il quesito racchiuso nel titolo, a taluni esperti, potrebbe apparire mal posto. Si potrebbe obiettare che, anzitutto, per taluni soggetti economici, il Bilancio di Sostenibilità possa essere semplicemente un’opportunità, mentre per altri è diventato, recentemente, obbligo di legge. In realtà lo scopo attrattivo del titolo intende richiamarvi ad una riflessione di natura diversa: ovvero, come un Bilancio di sostenibilità può diventare davvero utile al business di un’azienda? Si sa perfettamente che, con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n. 7 del 10/01/2017 del D.Lgs. 254/2016, si è attuata la Direttiva 2014/95/UE del Parlamento e del Consiglio Europeo del 22/10/2014, che reca modifiche alla Direttiva 2013/34/UE, ovvero riguardanti le informazioni di carattere non finanziario e sulla composizione degli organi di amministrazione, che imprese e gruppi di grandi dimensioni devono fornire, a integrazione dei consueti e tradizionali contenuti dei bilanci. E’ altresì indubbio che i nuovi obblighi di legge hanno stimolato la redazione dei reporting “non finanziari” non solo nelle grandi aziende, ma dato che queste devono render conto della propria responsabilità e tracciabilità rispetto alle proprie catene di fornitura, questo fatto spinge anche aziende più piccole, che pur non avrebbero obblighi, a rendicontare i propri “fattori ESG ”. Tuttavia, torniamo al nostro quesito. Questi processi in atto servono solo ad assolvere ad obblighi o opportunità di trasparenza, o stanno realmente incidendo e migliorando la vita delle aziende, la qualità degli obiettivi raggiunti e quindi anche dei relativi impatti ambientali e sociali. La sensazione (supportata da studi e indagini) è che ci sia ancora molta strada da fare percorrere in tal senso. E’ vero che molte aziende stanno adottando soluzioni legate ed orientate ai temi della sostenibilità, dal risparmio energetico, alla riduzione degli scarti, al welfare, al supporto alle onlus, etc.. E’ vero che si è evoluta la tendenza e la capacità di comunicare queste azioni. Ma il rischio è che se l’approccio alla sostenibilità, come accade in molti casi, si limita ad azioni di questo tipo, (per quanto esse siano nobili), i progressi verso un effettivo miglioramento sociale ed un’effettiva riduzione degli impatti negativi rischiano di restare esigui. Molto spesso, il tutto si riduce, di fatto, ad una risposta ad alcune istanze espresse dai propri consumatori o dalle comunità locali in cui si è insediati, svolta in maniera passiva e superficiale ed inefficace a generare benefici “strutturali”. C’è un concetto, ovvero un approccio, che ritengo assolutamente determinante e che tutte le aziende o le organizzazioni economiche dovrebbero adottare. E’ fondamentale che l’approccio alla Sostenibilità e alla Responsabilità Sociale diventino “integrali” rispetto alla vita, all'organizzazione e a tutte le dinamiche proprie dell'azienda. Rendicontare le proprie azioni senza aver prima effettuato una reale “integrazione” tra un “piano strategico di sostenibilità” e la pianificazione dei business aziendali, non consentirà mai di effettuare un vero, significativo ed utile(!) salto di qualità alle reali Sostenibilità e Responsabilità Sociale di un’azienda. Non basta un processo di reporting “ex-post”, ma è necessario partire da un piano strategico di sostenibilità, che attraversi tutte le fasi organizzative e le aree di interesse del soggetto economico. Deve essere un piano che prevede obiettivi chiari, concreti, rispondenti ad una “logica di senso” e misurabili. Solo successivamente l’attività di reporting sarà un utile rendicontazione di un cambiamento reale, in grado di mutare, in positivo, la Sostenibilità e la Responsabilità. Questa riflessione, spesso, spaventa o infastidisce taluni imprenditori o manager, che intravedono il rischio di un sovraccarico rispetto alle dinamiche di pianificazione o di gestione abituali. Si intravede spesso, erroneamente, un rischio di distrazione o di deviazione dagli obiettivi operativi necessari al business. In realtà non è così. Infatti non si tratta di aggiungere processi di analisi o di organizzazione (laddove questi vengano già attuati in maniera seria e compiuta) bensì di continuare a svolgerli aggiungendo ad essi un nuovo punto di vista, una nuova lente di osservazione. L’esperienza comune è che l’applicazione, sull’intero sistema e corpo aziendale, di un nuovo approccio analitico, progettuale e di rendicontazione, adeguatamente approfondito e ben integrato agli schemi e ai piani di business, non solo eleva la Sostenibilità ma offre una straordinaria serie di benefici e di nuove indicazioni sia per migliorare i risultati di business che il clima aziendale. Ciò e possibile se davvero l’analisi, la “ridefinizione” strategica e le misurazioni si snodano in modo “integrale” (non ci si stanca mai di ripeterlo), sulle fasi della vita aziendale e di prodotto. Tale ottica deve riguardare sia i contesti interni che esterni all’azienda. Vanno considerati, rispetto al proprio posizionamento, i principali fattori socio ambientali (che peraltro già andrebbero sempre vagliati in un’ottica di Risk Management ), le modalità con cui ad essi si rapportano i propri piani strategici, aziendali e industriali. Vanno analizzati gli scenari di mercato, così come i profili di sostenibilità messi in atto dai propri concorrenti e dai propri fornitori. Vanno identificate le opportunità e le aspettative, in un’ottica di sostenibilità, che emergono con forza e con risultati spesso stupefacenti ed estremamente interessanti quando si effettua, per davvero, un corretto ed approfondito “ stakeholder engagement ” sia interno che esterno all’azienda. E non va nemmeno sottovalutato, nel caso “interno”, quanto queste procedure giovino al senso di appartenenza e al clima aziendale. Sulla base di queste analisi , va poi redatto un vero e proprio piano strategico, fortemente integrato al piano di business o ai piani industriali, ove siano indicati con chiarezza e coerenza sia gli obiettivi generali che quelli dettagliati, gli indirizzi operativi per attuarli, le modalità e la periodicità di misurazione sul loro raggiungimento e i KPI utilizzati. Va inoltre definita e strutturata, con chiarezza e precisione di obiettivi, la governance che deve sovrintendere a tali processi, che deve verificarne l’effettiva misurazione e che deve occuparsi, attraverso azioni e strategie concrete, che tale orientamento sia comprensibile e condiviso da tutto il corpo aziendale e che divenga oggetto di un’efficace strategia di accountability e comunicazione verso l’esterno. Diciamolo: in molti casi tutto ciò può essere affrontato più agevolmente con l’ausilio di consulenti esterni, di specialisti seri e capaci. Di certo, si tratta di un nuovo approccio che non “sovraccarica” bensì arricchisce e perfeziona le dinamiche gestionali, consentendo loro di raggiungere, a sostanziale parità di impegni economici, nuovi risultati e performance estremamente interessanti.
Tempo di lettura: 3' Viviamo un epoca in cui abbondano, in mille occasioni, i richiami e le sottolineature all’importanza dell’innovazione e della ricerca come fattori competitivi e chiavi di sviluppo. Sono concetti teoricamente assodati, a cui si accompagna una crescente abbondanza di risorse economiche e consulenziali, volte a sostenere, appunto, attività di ricerca e di innovazione. Tuttavia rimangono ancora troppe le situazioni in cui l’innovazione rimane ascritta ad una singola fase della vita aziendale, o viene riservata ad un singolo ambito di una organizzazione produttiva. Spesso si fanno ricerca e sviluppo per innovare il prodotto, per innovare una fase di processo. Si fa innovazione quando gli utili (generati da strategie tradizionali) lo permettono, o inseguendo le contingenti opportunità di finanza agevolata. Questo approccio “parziale”, tuttavia, rischia di inficiarne gli effettivi risultati, impedendo che diventino strutturali, pertanto forieri di reale progresso, di un duraturo vantaggio competitivo, di una complessivo superamento degli schemi obsoleti, di una crescita sociale che favorisca tutti gli attori presenti in una comunità, migliorando anche il “clima economico”. Troppe volte si guarda all’innovazione come opportunità o necessità residuale, e non come percorso di “evoluzione” che, in quanto tale, deve riguardare l’intero corpo e l’intera esistenza di un soggetto produttivo o aziendale. Non c’è vera innovazione se, oltre ai percorsi di ricerca e di ammodernamento dei prodotti, essa non riguarda tutto il personale e tutte le funzioni. Non c’è vera innovazione senza “formazione continua”, senza incremento del benessere aziendale, senza rafforzamento del senso di appartenenza e condivisione degli obiettivi da parte di tutti coloro che operano nell’azienda, senza un’intensificazione ed uno scambio aperto e proficuo nei rapporti con l’esterno, con gli operatori della ricerca, con gli stakeholder, con i mercati. Non c’è vera innovazione senza diffusione e condivisione (interna e magari anche esterna) della conoscenza, senza tensione verso una generale crescita culturale di tutto il corpo aziendale. Non c’è vera innovazione senza una seria e responsabile misurazione degli impatti reali, di medio e lungo periodo, della propria attività. Non c’è vera innovazione senza Sostenibilità e senza Responsabilità Sociale, consapevolmente proiettate verso uno scenario di solidarietà intergenerazionale. L’innovazione, insomma, rimane spesso incompiuta e relativamente efficace ogni qualvolta non coincide con un senso di “evoluzione” generale, ogni qualvolta rimane ascritta ai reparti dedicati o alle voci di bilancio tecnicamente e nominalmente ad essa riservate, anziché permeare, orientare e contaminare l’intero quadro delle strategie, delle scelte, delle dinamiche di un’azienda. L’innovazione vera è un processo estremamente complesso, sfidante, interdisciplinare. Tuttavia, così concepita, essa è l’unica vera “strada maestra” verso la sopravvivenza, il successo, la crescita di un azienda ed il vero progresso di un intero corpo sociale.
Tempo di lettura: 4’ Ebbene sì, diciamolo: oggi parlare di CSR, dichiarare di praticarla, assume talvolta (forse troppo spesso) i connotati di una vera e propria “moda”. Eppure, rispetto alla CSR, l’attuale complessità e conflittualità economica e sociale ci pongono definitivamente di fronte ad un bivio. Da una parte si trova la CSR come “scudo sociale”, o peggio ancora come “foglia di fico”. Essa intenderebbe frapporsi tra l’impresa orientata al profitto ed il contesto sociale nel quale quel profitto stesso viene percepito come un “gravame” rispetto all’interesse e al bene pubblico. Tante, troppe azioni e strategie di CSR vengono pensate ed attuate come un conto da pagare, un costo da sostenere, da parte dell’impresa, per compensare il fatto che l’aumento del profitto equivarrebbe ad una sottrazione di ricchezza a danno dell’interesse comune e della collettività. Si tratta purtroppo di una visione che, peraltro, rischia di entrare in una pericolosa sintonia col rafforzarsi di una sensibilità “anti-impresa”, che in Italia, ahinoi, serpeggia in tanti meandri dell’opinione pubblica. E sarebbe arduo, in questo caso, provare anche a sostenere che, in definitiva, quella forma di presunta CSR non sia anch’essa parte del medesimo processo di accumulo del profitto. Infatti, essa serve, appunto, come scudo per evitare o lenire il conflitto sociale che può emergere contro un’impresa. Pare diventare, talvolta, una sorta di contenimento dell’egoistico istinto imprenditoriale, una stucchevole concessione per zittire le rivendicazioni di un interesse comune contrapposto a quello privato. All’altro lato del bivio c’è invece la CSR come strumento serio, intelligente, coraggioso per affrontare la complessità crescente (o diveniente) del sistema economico-sociale. Si tratta, in questo caso, di strategie articolate, volte a conciliare l’interesse privato con quello collettivo, divenendo in tal modo fattore determinante di una “positiva e innovativa evoluzione” sia per l’impresa che per il contesto sociale. Inutile dire che parteggiamo per questo secondo tipo di CSR. La prima si compone di azioni singolarmente pensate ed attuate per raggiungere singoli obiettivi, socialmente riconosciuti come “buone pratiche”, che devono poi tradursi in stellette da appuntare sull’abito grigio di un singolo “soggetto” imprenditoriale. Accade spesso che, in definitiva, le ricadute sociali di tali azioni abbiano un valore estemporaneo ed occasionale: esse poco contribuiscono ad un miglioramento strutturale del contesto sociale su cui ricadono. Per questo motivo, tali ricadute, di frequente non vengono nemmeno “misurate”, o se ciò accade, vengono utilizzate metodologie superficiali, generiche, poco avanzate, molto autoreferenziali. Il secondo tipo di CSR si basa invece su strategie integrate, che vengono progettate incrociando tra loro numerosi fattori. Tra essi si annoverano, necessariamente: - l’ innovazione , ovvero la tendenza a praticare la sostenibilità e la responsabilità dei processi produttivi, organizzativi, relazionali, adottando soluzioni realmente innovative sia dal punto di vista tecnico e scientifico che dal punto di vista sociale; questo fattore si accompagna sempre ad un senso complessivo di innovazione, intesa non verso i singoli stadi o processi aziendali, ma come tendenza ad essere una visione globale all’interno dell’impresa, in una forte tendenza al confronto e allo scambio con i contesti scientifici, tecnici, economici e sociali esterni all’azienda stessa; - il rafforzamento di una cultura della responsabilità che sia fortemente condivisa e partecipata da parte di tutta l’organizzazione dell’impresa, e non solo dagli uffici ad essa dedicati; - il rigore metodologico e progettuale di tutte le fasi di costruzione e di pratica della CSR, dalla progettazione, al coinvolgimento interno all’azienda e degli stakeholder esterni, alla fasi di sviluppo e di applicazione, alla misurazione costante degli impatti sociali; - un forte impegno verso il benessere aziendale e verso il senso di appartenenza di tutti gli operatori dell’azienda; - la “formazione continua” , nella certezza che il possesso di una visione ampia, di una cultura più forte e radicata in possesso a tutti gli operatori aziendali è necessaria a favorire il senso di appartenenza e di responsabilità di tutti gli addetti. Ecco allora che questo tipo di CSR innesca e facilita i processi di innovazione integrale, pone l’azienda in un ruolo positivo verso il contesto sociale che la circonda, genera strategie di CSR in grado di ricadere positivamente, ma in maniera strutturale e permanente, sul contesto sociale stesso. Ed ecco allora che la CSR, così costruita e praticata, non costituisce più un costo, ma diviene uno straordinario fattore competitivo di sviluppo e di maggior profitto, naturalmente e positivamente accettato dall’intera collettività.
Tempo di lettura: 6' Il quesito racchiuso nel titolo, a taluni esperti, potrebbe apparire mal posto. Si potrebbe obiettare che, anzitutto, per taluni soggetti economici, il Bilancio di Sostenibilità possa essere semplicemente un’opportunità, mentre per altri è diventato, recentemente, obbligo di legge. In realtà lo scopo attrattivo del titolo intende richiamarvi ad una riflessione di natura diversa: ovvero, come un Bilancio di sostenibilità può diventare davvero utile al business di un’azienda? Si sa perfettamente che, con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n. 7 del 10/01/2017 del D.Lgs. 254/2016, si è attuata la Direttiva 2014/95/UE del Parlamento e del Consiglio Europeo del 22/10/2014, che reca modifiche alla Direttiva 2013/34/UE, ovvero riguardanti le informazioni di carattere non finanziario e sulla composizione degli organi di amministrazione, che imprese e gruppi di grandi dimensioni devono fornire, a integrazione dei consueti e tradizionali contenuti dei bilanci. E’ altresì indubbio che i nuovi obblighi di legge hanno stimolato la redazione dei reporting “non finanziari” non solo nelle grandi aziende, ma dato che queste devono render conto della propria responsabilità e tracciabilità rispetto alle proprie catene di fornitura, questo fatto spinge anche aziende più piccole, che pur non avrebbero obblighi, a rendicontare i propri “fattori ESG ”. Tuttavia, torniamo al nostro quesito. Questi processi in atto servono solo ad assolvere ad obblighi o opportunità di trasparenza, o stanno realmente incidendo e migliorando la vita delle aziende, la qualità degli obiettivi raggiunti e quindi anche dei relativi impatti ambientali e sociali. La sensazione (supportata da studi e indagini) è che ci sia ancora molta strada da fare percorrere in tal senso. E’ vero che molte aziende stanno adottando soluzioni legate ed orientate ai temi della sostenibilità, dal risparmio energetico, alla riduzione degli scarti, al welfare, al supporto alle onlus, etc.. E’ vero che si è evoluta la tendenza e la capacità di comunicare queste azioni. Ma il rischio è che se l’approccio alla sostenibilità, come accade in molti casi, si limita ad azioni di questo tipo, (per quanto esse siano nobili), i progressi verso un effettivo miglioramento sociale ed un’effettiva riduzione degli impatti negativi rischiano di restare esigui. Molto spesso, il tutto si riduce, di fatto, ad una risposta ad alcune istanze espresse dai propri consumatori o dalle comunità locali in cui si è insediati, svolta in maniera passiva e superficiale ed inefficace a generare benefici “strutturali”. C’è un concetto, ovvero un approccio, che ritengo assolutamente determinante e che tutte le aziende o le organizzazioni economiche dovrebbero adottare. E’ fondamentale che l’approccio alla Sostenibilità e alla Responsabilità Sociale diventino “integrali” rispetto alla vita, all'organizzazione e a tutte le dinamiche proprie dell'azienda. Rendicontare le proprie azioni senza aver prima effettuato una reale “integrazione” tra un “piano strategico di sostenibilità” e la pianificazione dei business aziendali, non consentirà mai di effettuare un vero, significativo ed utile(!) salto di qualità alle reali Sostenibilità e Responsabilità Sociale di un’azienda. Non basta un processo di reporting “ex-post”, ma è necessario partire da un piano strategico di sostenibilità, che attraversi tutte le fasi organizzative e le aree di interesse del soggetto economico. Deve essere un piano che prevede obiettivi chiari, concreti, rispondenti ad una “logica di senso” e misurabili. Solo successivamente l’attività di reporting sarà un utile rendicontazione di un cambiamento reale, in grado di mutare, in positivo, la Sostenibilità e la Responsabilità. Questa riflessione, spesso, spaventa o infastidisce taluni imprenditori o manager, che intravedono il rischio di un sovraccarico rispetto alle dinamiche di pianificazione o di gestione abituali. Si intravede spesso, erroneamente, un rischio di distrazione o di deviazione dagli obiettivi operativi necessari al business. In realtà non è così. Infatti non si tratta di aggiungere processi di analisi o di organizzazione (laddove questi vengano già attuati in maniera seria e compiuta) bensì di continuare a svolgerli aggiungendo ad essi un nuovo punto di vista, una nuova lente di osservazione. L’esperienza comune è che l’applicazione, sull’intero sistema e corpo aziendale, di un nuovo approccio analitico, progettuale e di rendicontazione, adeguatamente approfondito e ben integrato agli schemi e ai piani di business, non solo eleva la Sostenibilità ma offre una straordinaria serie di benefici e di nuove indicazioni sia per migliorare i risultati di business che il clima aziendale. Ciò e possibile se davvero l’analisi, la “ridefinizione” strategica e le misurazioni si snodano in modo “integrale” (non ci si stanca mai di ripeterlo), sulle fasi della vita aziendale e di prodotto. Tale ottica deve riguardare sia i contesti interni che esterni all’azienda. Vanno considerati, rispetto al proprio posizionamento, i principali fattori socio ambientali (che peraltro già andrebbero sempre vagliati in un’ottica di Risk Management ), le modalità con cui ad essi si rapportano i propri piani strategici, aziendali e industriali. Vanno analizzati gli scenari di mercato, così come i profili di sostenibilità messi in atto dai propri concorrenti e dai propri fornitori. Vanno identificate le opportunità e le aspettative, in un’ottica di sostenibilità, che emergono con forza e con risultati spesso stupefacenti ed estremamente interessanti quando si effettua, per davvero, un corretto ed approfondito “ stakeholder engagement ” sia interno che esterno all’azienda. E non va nemmeno sottovalutato, nel caso “interno”, quanto queste procedure giovino al senso di appartenenza e al clima aziendale. Sulla base di queste analisi , va poi redatto un vero e proprio piano strategico, fortemente integrato al piano di business o ai piani industriali, ove siano indicati con chiarezza e coerenza sia gli obiettivi generali che quelli dettagliati, gli indirizzi operativi per attuarli, le modalità e la periodicità di misurazione sul loro raggiungimento e i KPI utilizzati. Va inoltre definita e strutturata, con chiarezza e precisione di obiettivi, la governance che deve sovrintendere a tali processi, che deve verificarne l’effettiva misurazione e che deve occuparsi, attraverso azioni e strategie concrete, che tale orientamento sia comprensibile e condiviso da tutto il corpo aziendale e che divenga oggetto di un’efficace strategia di accountability e comunicazione verso l’esterno. Diciamolo: in molti casi tutto ciò può essere affrontato più agevolmente con l’ausilio di consulenti esterni, di specialisti seri e capaci. Di certo, si tratta di un nuovo approccio che non “sovraccarica” bensì arricchisce e perfeziona le dinamiche gestionali, consentendo loro di raggiungere, a sostanziale parità di impegni economici, nuovi risultati e performance estremamente interessanti.
Tempo di lettura: 3' Viviamo un epoca in cui abbondano, in mille occasioni, i richiami e le sottolineature all’importanza dell’innovazione e della ricerca come fattori competitivi e chiavi di sviluppo. Sono concetti teoricamente assodati, a cui si accompagna una crescente abbondanza di risorse economiche e consulenziali, volte a sostenere, appunto, attività di ricerca e di innovazione. Tuttavia rimangono ancora troppe le situazioni in cui l’innovazione rimane ascritta ad una singola fase della vita aziendale, o viene riservata ad un singolo ambito di una organizzazione produttiva. Spesso si fanno ricerca e sviluppo per innovare il prodotto, per innovare una fase di processo. Si fa innovazione quando gli utili (generati da strategie tradizionali) lo permettono, o inseguendo le contingenti opportunità di finanza agevolata. Questo approccio “parziale”, tuttavia, rischia di inficiarne gli effettivi risultati, impedendo che diventino strutturali, pertanto forieri di reale progresso, di un duraturo vantaggio competitivo, di una complessivo superamento degli schemi obsoleti, di una crescita sociale che favorisca tutti gli attori presenti in una comunità, migliorando anche il “clima economico”. Troppe volte si guarda all’innovazione come opportunità o necessità residuale, e non come percorso di “evoluzione” che, in quanto tale, deve riguardare l’intero corpo e l’intera esistenza di un soggetto produttivo o aziendale. Non c’è vera innovazione se, oltre ai percorsi di ricerca e di ammodernamento dei prodotti, essa non riguarda tutto il personale e tutte le funzioni. Non c’è vera innovazione senza “formazione continua”, senza incremento del benessere aziendale, senza rafforzamento del senso di appartenenza e condivisione degli obiettivi da parte di tutti coloro che operano nell’azienda, senza un’intensificazione ed uno scambio aperto e proficuo nei rapporti con l’esterno, con gli operatori della ricerca, con gli stakeholder, con i mercati. Non c’è vera innovazione senza diffusione e condivisione (interna e magari anche esterna) della conoscenza, senza tensione verso una generale crescita culturale di tutto il corpo aziendale. Non c’è vera innovazione senza una seria e responsabile misurazione degli impatti reali, di medio e lungo periodo, della propria attività. Non c’è vera innovazione senza Sostenibilità e senza Responsabilità Sociale, consapevolmente proiettate verso uno scenario di solidarietà intergenerazionale. L’innovazione, insomma, rimane spesso incompiuta e relativamente efficace ogni qualvolta non coincide con un senso di “evoluzione” generale, ogni qualvolta rimane ascritta ai reparti dedicati o alle voci di bilancio tecnicamente e nominalmente ad essa riservate, anziché permeare, orientare e contaminare l’intero quadro delle strategie, delle scelte, delle dinamiche di un’azienda. L’innovazione vera è un processo estremamente complesso, sfidante, interdisciplinare. Tuttavia, così concepita, essa è l’unica vera “strada maestra” verso la sopravvivenza, il successo, la crescita di un azienda ed il vero progresso di un intero corpo sociale.